IL DIRITTO DI DIFESA TRA NORMA E PRASSI
Taluni significativi passaggi del contributo offerto alla discussione dall’avvocato Melchionda attraverso il suo puntuale e sincero intervento di questa mattina sono stati accolti in sala da qualche brusio.
Io li ho accolti, invece, con molto interesse perché ho ritenuto che Meichionda col suo intervento abbia colpito nel segno. Nel seri- so che il suo chaier des doléances, lungi dall’offrire prospettazioni o rarefazioni concettuali, ha dato l’opportunità di verificare lo spaccato pratico, l’indicazione precisa di quello che succede all’avvocato o quello che succede fra avvocato e giudice, nelle aule di giustizia, nelle carceri, negli uffici giudiziari.
E credo che questo sia anche il senso di questo incontro.
- Come è stato ricordato poco fa, incontri come questo ci consentono di dirci tutto, di provare a capirci e di renderci conto che la interazione dei ruoli se va al di là della dialettica, se scantona, è scontro ed il conflitto nuoce al quadro complessivo della giustizia.
E di ciò credo che i signori giudici debbano essere tutti consapevoli.
Ma, ci chiede il dott. Bonaccetti: voi avvocati ci dovete chiarire qualcosa; siamo pronti ad accettare anche le vostre « spontanee e sincere dichiarazioni ». E vero che subite i condizionamenti della committenza? E aggiunge il professore Amodio: a Milano e a Torino i maxi-processi si sono svolti regolarmente, a Napoli e Palermo invece sembra che l’avvocatura scalpiti t faccia il « sabotaggio », come con spregevole parola si è espresso recentemente l’onorevole Azzaro.
In pratica sembra che insorga da più pani un avvocatura scapigliata e adespota o non troppo adespota: il passaggio successivo sembra chiaro.
Vi sarebbe, in sostanza una cena avvocatura forse anche etichettabile, sul piano dell’accusa, come meridionale che non si limita a strizzare l’occhio all’imputato (il che sarebbe già censurabile sul piano deontologico) ma che, parafrasando il concetto di intellettuale organico, in questo caso sarebbe organica ai contropoteri criminali.
Detto questo, il passaggio appare definitivo perché si arriva fatalmente ad una teorizzazìone più generale, globale, che coinvolge tutta l’avvocatura. A questo punto io pongo la domanda: è suggestione questa o è certezza generalizzata, che può arrivare addirittura ad enfantizzare singoli episodi che, se ci sono, portano alla condanna ancor prima del giudizio, con valutazioni fuorvianti che credo non possano portare a intaccare l’immagine complessiva dell’avvocato italiano, pur senza distinzioni territoriali?
Io ritengo di poter affermare che non si possa, senza un salto logico, arrivare a criminalizzare i difensori nella loro generalità, anche perché c'è da domandarsi quante organicità esistono e quante delle organicità che esistono, scandalizzano.
Ma io devo anche dire che vi è stata una certa refrattarietà dal ceto forense, del libero foro, in anni abbastanza duri e difficili, negli anni 70, ad imporsi e a svolgere quel ruolo di controllo, sempre nel-l'ambito della legge, nei confronti di certe condotte che partivano dal legislatore e che si riverberavano/ nelle aule di giustizia.
Ricordiamo tutti la censura che Vassalli mosse nel '79, se ricordo bene, in uno studio sulla libertà personale allorché dalle colonne della Giustizia penale rimproverò al libero foro che si era impegnato solo a badare al suo particolare. Ciascun avvocato badava prevalentemente al suo specifico problema professionale senza rendersi conto che, nel frattempo, la legislazione di emergenza stringeva sempre di più gli spazi di operatività e quindi comprimeva il diritto di difesa o alla difesa.
E, allora, il vero cuore del problema da affrontare in questo incontro che è così titolato « il diritto di difesa tra norme e prassi » credo che sia il processo penale e la sua immagine perversa sul piano della politica giudiziaria e della tecnica, cioè il maxi processo.
Domani e dopo domani se ne parlerà a San Remo con un tema stimolante che fa pensare ad un tavolo ...autoptico, « anatomia del maxi-processo ». Ricercheremo le prospettive di accantonamento di una giustizia fatta di processi ciclopici che ha raggiunto ormai la soglia del non ritorno.
Intanto a me pare che la diagnosi svolta in linea generale stamattina dal professor Amodio debba essere accolta.
Nessuno, penso, possa negare che il processo penale è diventato il sismografo rivelatore delle tensioni socio-politiche del Paese. E l'opzione penale, in questi anni, è stata ritenuta lo strumento più incisivo e di maggiore portata, come momento centrale attraverso il quale, con la creazione di nuove fattispecie penali, si è mirato a realizzare prevalentemente i fini di difesa sociale attraverso meccanismi che, se non sono andati contro la Costituzione, certamente sono andati oltre la Costituzione, sostanziandosi in tutte quelle condotte, in tutte quelle situazioni, ritenute lecite almeno perché non antitetiche ad un precetto costituzionale.
Nessuno si è stupito se la legislazione dell'emergenza è stata « razionalizzata », lo abbiamo sentito stamattina, dal garantismo inquisitorio.
Io ritengo di dover affermare, rappresentando qui un organismo che opera nell'avvocatura da venti anni, anche attraverso documenti e comportamenti che sono incontestabili e incontestati, che, affrontando talvolta le impopolarità, come è accaduto in occasione del recente sciopero degli avvocati penalisti, abbiamo ritenuto che non fosse possibile una astensione dalle udienze legata alla legge Mancino-Violante, anche perchè si era alle soglie della sua approvazione.
Questa avvocatura consapevole rifugge da impennate astensionistiche; è impegnata, peraltro, perchè sia rimossa la cultura dell'emergenza e propone una nuova professionalità, sia per i giudici che per gli avvocati.
Io ritengo che ci si debba liberare dall'emergenza e da una certa maniera di atteggiarsi dei pubblici ministeri (non ci si venga a dire che c'è la possibilità del reclamo, che c'è la possibilità di far scrivere a verbale che il pubblico ministero non ha formulato la domanda in quel preciso modo e che l'imputato ha mosso la gamba sinistra invece di quella destra e che si può presentare un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura, ecc.).
È importante oggi denunciare che, purtroppo, in questi anni gli avvocati sono stati relegati nel ruolo di professionisti di rito, se non di percettori di taglie sulle disgrazie altrui. Questo non può più essere accettato perchè non è accettato dalla gente comune, quella che vuole il giudice, come è stato detto poco fa, non ricercatore di oscure verità o storico dei processi, ma soggetto che opera perchè nel processo corretto si cerchi la verità processuale.
E allora quelle regole del gioco di cui tanto parliamo, ricordando come sia stato Calamandrei ad accostare il processo al gioco, ci sono e devono essere rispettate.
Non possiamo contrabbandare con ragioni di difesa sociale quel rimpallo fra autorità e libertà che alimenta il garantismo zoppo cui ha fatto riferimento Achille Melchionda stamattina.
In conclusione, ritengo che il diritto di difesa, di fatto, nella prassi, nella quotidianità, possa svilupparsi in tutta la possibile latitudine che la stessa Carta costituzionale delinea, in attesa della riforma del codice di procedura penale perchè credo che il problema fra i problemi sia quello di una specie di diritto intermedio fra questo sistema che ogni giorno attuiamo e quel sistema verso il quale miriamo.
Quel sistema proporrà certo dei nuovi modelli di professionalità.
Credo che si debba sperimentare nel quotidiano lavoro di tutti noi una fase, che non sia sovrastrutturale, che sia reale, che oserei definire di neo-garantismo, da attuare con l'innesto nel processo inquisitorio di ogni giorno di tutti quei passaggi che rispondono allo spirito della riforma processuale penale, là dove non siano vietati.
Ma ciò che fra l'altro è assolutamente indispensabile dire, è che nessun passo avanti si potrà fare se non lavoreremo con estrema sincerità di intenti: dico questo, anche se certe nostre indicazioni possono essere accettate da voi magistrati con il sorriso sulle labbra; ma, credetemi, talvolta il sorriso possiamo averlo anche noi. Dobbiamo individuare le ragioni del dissenso fra noi per operare nel modo migliore all'interno dei palazzi di giustizia, visto che alla Conferenza della Giustizia di Bologna si è detto che tutti insieme dobbiamo far funzionare l'azienda giustizia. Dobbiamo darci un taglio operativo del tutto nuovo nel quale dobbiamo credere , altrimenti soccomberà tutto l'apparato. Ciò che a me pare sia importante è che all'antagonismo dialettico fra avvocato e giudice non si preferisca l'antagonismo fatto di faziosità e di sospetto. In definitiva un antagonismo di culture.
È questa la notazione che mi permetto di affidare alla vostra riflessione, perchè credo che su questa possibilità di eliminazione dell'antagonismo delle nostre culture si possa lavorare. Lavorare in tal senso credo che valga ancora la pena.
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