GIUSTIZIA E COSTITUZIONE
Mi perdonerete se mi allontanerò un attimo dagli spunti pragmatici, peraltro interessantissimi, che finora sono stati portati alla vostra attenzione, ma il tema proposto da questo convegno non ci impedisce di affrontare il richiamo ai quarant'anni di Costituzione anche sotto un altro angolo di interpretazione. Credo che non sia ripetitivo, nel momento in cui si affronta un tema di questo genere e si vuole ricordare la Costituzione repubblicana, invocare l'applicazione delle norme e dei valori ad esse sottostanti, che sia esaustiva e sia vissuta fino in fondo. Credo che dopo quarantadue anni tutti quanti avvertiamo, leggendo la nostra Carta costituzionale, che due aspetti appaiono speculari rispetto alle indicazioni offerte dal documento di base di questo convegno.
Allo sviluppo economico tumultuoso, così è stato definito anche nelle premesse, e all'esigenza di legalità che tutti avvertiamo, corrispondono i tradizionali principi di continuità e di mutamento. È il bivio dinanzi al quale ci troviamo: conservazione o rivoluzione dei diritti vigenti, in particolare di quelli fondamentali consacrati nella Costituzione? Il presidente Covi poneva questa dicotomia: privilegiare gli aspetti socio-economici, ovvero rileggere quelli istituzionali e, rileggendoli, verso quale sbocco andare?
Io credo che la scelta tra continuità e mutamento in tema di diritti implichi notevolissime questioni teorico-pratiche, che ovviamente non potrebbero essere affrontate in modo completo in questa sede. Ma le pulsioni socio-economiche che comunque non bisogna ignorare, ci avvertono che il mondo intorno a noi, anche nel nostro Paese, cambia, che la gente nel manifestare liberamente i più disparati e talvolta conflittuali atteggiamenti (e la società italiana di que-ste pulsioni ne ha anche a iosa) realizza una maggiore partecipazione alla vita del Paese e spesso pone in discussione diritti esistenti che non sono stati vissuti fino in fondo.
È questo un concetto sul quale vi prego di soffermare un attimo l'attenzione. In questa realtà, che è incontestabile, io credo che da una parte diritto ed economia e dall'altra valori costituzionali e dinamiche economiche, interagiscono. Non caso il tema del congresso propone da un canto lo sviluppo economico, dall'altro il problema del controllo di legalità. E allora questa interdipendenza fa da sfondo ai modelli di impatto con i quali lo Stato, il nostro Stato, attraverso i processi politici e legislativi con i quali esprime eventuali nuove norme, definisce o attribuisce i diritti e realizza i diritti costituzionali, propone anche un'apertura verso quelli che poi sono i riflessi sul mercato, sul sistema economico nel suo complesso.
Domanda: la crescita della ricchezza materiale (e qui richiamo il principio economico) favorisce lo sviluppo e la massima espansione e la definizione e la realizzazione dei diritti? Di quali? Ovviamente di quelli costituzionali. Ma io ho il convincimento, e non sono il solo, perché siamo in tanti a pensarlo, che la crisi dello Stato sociale abbia proposto nuove dimensioni, nuove di-namiche nei conflitti sociali e abbia manifestato nuovi e più incalzanti diritti degni di tutela, che la grande massa dei cittadini vive in modo conflittuale anche nei confronti delle istituzioni. Ma a fronte di questo, e veniamo alla seconda parte del dilemma, lo stampo idealistico della cultura giurisprudenziale italiana, apparentata nel bene e nel male agli im-perativi del codice Rocco, malgrado l'opera incessante della Corte costituzionale, ha limitato di molto il campo dell'azione riformatrice ed è forse anche per questo che l'azione innovativa, lo ricordava poco fa D'Auria, sia dei corpi procedurali, sia del codice di procedura penale, stenta ad arrivare al traguardo.
La stessa esperienza referendaria sulla responsabilità del magistrato non ha cela-to, direi talvolta in modo maldestro, anche dietro diffuse e animose conflittualità non sempre ideologiche o politiche, le diverse teorie del diritto che presiedono ad una concezione della giustizia improntata ad un preciso orientamento culturale ed anche ai con-seguenti riflessi che, poi, con un'onda non sempre lunga, si determinano nel mondo economico.
Sicché io credo che, ancora oggi, siano indefiniti, se ci si allontani o si pretenda di allontanarsi dalle regole del patto costituzionale, la sostanza ed i termini del potere reale e partecipativo di cui ciascun cittadino gode, guardando alla giurisdizione come a quella cerniera protettiva della tutela dei suoi diritti. E allora, quando si manifesta la ribellione nei confronti della giurisdizione, essa è figlia di aspirazioni sommerse, talvolta ispirata a forme alternative di giustizia e viene fuori il commento di Eri-ce, per chi ha ascoltato o ha letto sulla stampa ciò che il presidente Carnevale ha detto.
Motivi di perplessità, comunque, vi sono anche quando si tenta di razionalizzare certi tipi di intervento, negando valenza all'indizio e dicendo che l'indizio non esiste ed esiste soltanto la prova. Ci si allontana forse molto da quelle spinte che, talvolta rabbiosamente, anche nel sociale, avvertiamo, allorché si chiedono mutamenti sostanziali dell'organizzazione giuridica e conseguentemente di quella economica.
Allora, secondo me, noi ci troviamo oggi dinanzi ad una trappola sociale, che non è solo sociale, che può essere evitata, che deve essere evitata se, nel campo della giurisdizione, si riesce a vivere fino in fondo i valori costituzionali.
Ecco il mio pensiero, la mia modesta opinione, con riferimento al tema che oggi il convegno di Senigallia propone. Anche se sommersa, viene fuori un'indicazione: se andare verso scelte di mutamento istituzionale o piuttosto rimanere per ora nell'ambito circoscritto di una Costituzione che più che essere mutata o adeguata ha da essere ancora, innanzitutto, attuata.
D'Auria poco fa ci ha ricordato che l'articolo 24 se non è un capitolo del libro dei sogni è certamente anche un capitolo di un libro ancora non scritto fino in fondo. Va da sé che queste enunciazioni sono soltanto schegge o segmenti di un ragionamento più complesso che non è il caso che io faccia qui e non è il caso di fare in questo momento, che vanno raccordate al loro specifico richiamo, sul terreno pratico, al problema che ha indotto me a parlare come rappresentante del sindacato nazionale degli avvocati.
Avvocatura e controllo di legalità: ma, a monte, vi è un ulteriore rilievo, quel rilie-vo sull'etica sociale che nella relazione di base ha sviluppato Garavelli. La questione morale diventa impopolare? Ebbene, sì, signori. Subito ci accorgiamo che la gente non cerca più il bravo avvocato che sappia correttamente convincere il giudice nel rispetto delle regole del gioco. Spesso cerca, o, anzi, innanzitutto cerca quell'avvocato che comunque ottenga il risultato utile, il risultato favorevole attraverso un giudice possibilmente sbilanciato sulla propria tesi: ciò perché le soglie di legalità, di eticità, come giustamente scrive Garavelli nella relazione di base, sono ritenute elastiche, ed i modelli di comportamento sono disorganici, talvolta contraddittori.
La legislazione è caotica. La stessa committenza criminale (sono cose che forse diciamo a bocca chiusa, ma bisogna cominciare a dire con maggiore senso di responsabilità) si muove in termini di persuasione e lusinga ottenendo talvolta una inaccettabile disponibilità dei difensori, che si tenta di asservire ad impietose regole di clan. Ed allora comprendiamo come si avverta la difficoltà di disciplinare anche il ventaglio delle condotte deontologiche.
Mi dispiace che oggi non sia tra noi Franco Grande Stevens, presidente del Consiglio Nazionale Forense e punto di riferimento anche per una deontologia che riguarda gli avvocati. La deontologia dell'avvocato o degli avvocati? Ecco un ventaglio di situazioni che, a monte, ha il modo di manifestarsi del diritto di difesa e, poi, il modo di porsi dell'avvocato nella fase di controllo di legalità. D'altra parte, signori, il diritto alla giustizia ha subito in questi anni tante di quelle compressioni, grazie anche alla legislazione di emergenza.
Chi ha denunciato con icastica espressione le pericolose scorciatoie non sempre evitate dai giudici, sovente inutili sia sul terreno delle libertà individuali sia su quello della difesa sociale, non ha sbagliato.
È incontestabile l'abbassamento del tono della giurisdizione e l'arretramento complessivo dei principi fondamentali di legalità, di tassatività, della personalità, della responsabilità e, in definitiva, della certezza del diritto. È vero che una avvocatura consapevole ha saputo, in questi anni, reagire ad un uso tutto particolare della massima consolidata; ma è anche vero che il controllo di legalità del disegno costituzionale, come scrive Criscuolo nella relazione di base, è indispensabile affinché la legge possa assolvere fino in fondo la funzione di composizione promozionale e di garanzia che le è propria, altrimenti tale legge ha fallito il suo scopo.
Il riferimento del cittadino alla legge, come referente costituzionale (che, poi, è il percorso attraverso il quale, tramite la giurisdizione, si effettua il controllo sulla legalità) mi pare che sia a questo punto il nodo sul quale dobbiamo riflettere. Il modo di esprimersi della attività nomofilattica della Corte suprema non può non suscitare approfondite riflessioni, e, con essa, tutta la problematica della costante rivendicazione della Corte costituzionale del monopolio della interpretazione giuridica.
Insomma, il principio di legalità va salvaguardato, ma proprio attraverso quegli equilibri istituzionali che lo stesso Covi poco fa richiamava, e credo che la realtà suggerisca poi nella pratica quotidiana una serie di spunti e di considerazioni che costituiranno certamente l'argomento che animerà il dibattito nei prossimi anni. Una cosa è certa: il valore della certezza giuridica e, conseguentemente, il principio di legalità che è uno dei principi cardine delle libertà fondamentali del cittadino, non può subire distorte interpretazioni. Gli esempi sul punto sarebbero tanti. Basta ricordare, sotto altro aspetto, per esempio (i riflessi sull'economia sono chiari) il problema che tornerà ancora una volta all'esame delle Sezioni Unite, riguardante la qualifica dei dipendenti bancari, che presenta ampie implicazioni perché la tenaglia che stringe oggi le banche tra pubblico e privato propone più com-plesse questioni che coinvolgono anche le norme comunitarie, con riferimento al territorio nel quale il nostro Paese è inserito e spunti notevolissimi connessi proprio allo sviluppo della nostra economia verso il 1992.
Per passare ad altro argomento, il contenitore di valori e di diritti ancora da attuare, ancora da diffondere e radicare nel sociale e cioè la nostra Carta costituzionale ha, nell'art. 24, uno scenario nel quale poche immagini sono ancora definite. Quella irresistibile ascesa del nuovo processo penale verso la pratica attuazione ha un punto, e non è il solo, oscuro e non approfondito con la serietà e la tempestività che richiede, ed è quello della difesa dei non abbienti.
Il testo della riforma del processo penale, che ora è legge, all'art. 98 rinvia ad una apposita legge sulla difesa dei non ab-bienti che disciplini la me.teria. A quarantadue anni dalla Costituzione l'art. 24 e.3 è ancora inattuato e chissà che non rimanga come sola espressione della Costituzio ne di carta.
Insomma, per concludere, con richiamo alla teoria generale del diritto, il rapporto tra Stato e legislazione, fra cittadino e giurisdizione, i diritti esistenti, sui quali attraverso il controllo di legalità si attuano anche le scansioni dello sviluppo, come linea di tendenza verso il benessere collettivo, devono essere attuati e rispettati.
A mio avviso, lo Stato non riuscirà a stabilire il rispetto per le leggi, se non darà alle leggi il diritto a questo rispetto. Sembra un bisticcio, ma credo che non lo sia, nel momento in cui, per dirla con Ronald Dworking, se non si prendono i diritti sul serio, non si può neanche prendere il diritto sul serio.
E questo credo che non piaccia a nessuno.
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