2004 Tante sbarre

IL CARCERE - TANTE SBARRE FRA DIFESA SOCIALE E DIRITTI DI LIBERTA'

L'argomento è relativo a problematiche sempre di viva attualità che ancora si presentano come occasione di riflessione per giuristi, giornalisti ed operatori sociali sulle carceri italiane che, con le loro strutture panottiche, affollate ed alienanti, attendono sempre interventi globali sia edilizi e strutturali, sia di gestione e di decongestione.

Si tratta di un tema drasticamente "chiuso" che fa prevedere, però, una possibilità di ulteriore apertura dialettica fra quanti mostrano sensibilità per le questioni riguardanti la carcerazione, nel bilanciato equilibrio di valori che vanno dalle ansie di libertà ed umanità di trattamento alle esigenze di difesa sociale.

Il provvedimento di clemenza del 2003 si è rivelato di scarsa efficacia, mentre le restrizioni apportate ai fondi per gli investimenti nel settore penitenziario nella misura di meno il 17%, nel contesto limitato del piano pluriennale di intervento in materia di edilizia carceraria, hanno finito col rappresentare segnali preoccupanti per un dibattito davvero serio e costruttivo.

E' sorprendente, in proposito, la decisione del Governo di alcuni mesi or sono di prevedere nuove carceri soltanto al Nord e al Centro Italia, con ulteriore mortificazione del Mezzogiorno, ove gli istituti di pena versano in condizioni drammatiche. Basti pensare al dato fornito dal carcere di Poggioreale (Napoli), dove in una cella venivano ospitati fino a 16 detenuti. La precisa localizzazione geografica delle nuove strutture, con preferenza in alcune zone del Centro - Nord ha penalizzato ancora una volta il Sud, nonostante le sollecitazioni provenienti da altre realtà, ed ha circoscritto l'intervento a zone forse elettoralmente "sensibili".

La natura della pena

E' certo però che, a circa trenta anni dall'approvazione dell'ordinamento penitenziario, che seguì a disperate, ricorrenti e diffuse rivolte all'interno delle carceri italiane, nuovi e complessi problemi si continuano a porre per la violenza, il sovraffollamento, la diffusione del HIV e della epatite C, il numero di minori e di stranieri reclusi, il lavoro, i suicidi, le difficili prospettive di reinserimento.

E' noto, peraltro, che l'art. 27 della Carta Costituzionale della Repubblica Italiana impone che le pene non consistano in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Intorno a questa norma costituzionale ruota una quantità consistente di leggi, regolamenti, circolari, raccomandazioni e risoluzioni che hanno dato vita ormai ad un corpus, ad un vero e proprio "codice penitenziario" che, dal punto di vista n ormativo, ha come riferimento base la L. 26.7.75 n. 354 (norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) con le successive modificazioni anche recenti, nonché la L. 165 del 12.5.98 (ed. Legge Simeone) da taluni semplicisticamente definita "legge svuotacarceri".

Un minimo di analisi storica induce a considerare che la tematica carceraria richiede, peraltro, per il futuro, maggior determinazione e più definiti profili d'intervento e di sensibile risposta al mutamento sociale nonché all'ineluttabile processo di multietnicità: ciò comporta singolari eppur necessarie scelte che, comunque, non mettano in discussione il principio costituzionale sopra detto ed il reticolo normativo di riferimento, nazionale ed internazionale.

E' bene ricordare che quando il malessere e la drammatica condizione di vita sono diffusi, è facile che prevalga la protesta rispetto alla proposta ed al confronto democratico e costruttivo. Non v'è, allora, altra strada da percorrere che quella della severa analisi e della rimozione dei soli buoni propositi che si rinnovano nel tempo, da attuare attraverso una presa di coscienza collettiva sulle condizioni intollerabili di repressione, sul regime di carcerazione speciale e sulla indifferibile necessità di un complessivo progetto di solidarietà intra ed extra muraria.

Una volta per tutte ci si deve convincere che non possono essere le celle e le sbarre l'unica difesa della società e che si deve attuare con determinazione la riforma totale della giustizia e del sistema penale.

Appare utile, a questo punto, segnalare alcuni spunti di tipo pratico o interdisciplinare che inducano a riflettere sia sul ricorrente interrogativo riguardante l'avvenuta attuazione delle norme costituzionali e l'adeguamento alle risoluzioni ed ai protocolli internazionali riguardanti la salvaguardia dei diritti dell'uomo e le regole minime per il trattamento dei detenuti, sia sui dati di conoscenza che possano favorire l'approfondimento e, quindi, scelte consapevoli e positive.

L'ottica su cui si può muovere in merito al tema delle carceri non può, però, non apparire parziale e, forse, sbilanciata, anche se l'intento è di equilibrarla con dati di esperienza.

La parzialità, peraltro, non è né occasionale, né isolata.

L'argomento attiene al diritto ed alla procedura penale, alla criminologia, alla sociologia criminale, nonché ad altre diverse discipline, ed ha nel diritto penitenziario il primo punto di riferimento. Esso coinvolge, però, anche la politica nel più ampio senso, nonché le diverse componenti attraverso cui si esprime e si è soliti individuare la ed. "società degli uomini liberi".

Nulla, però, appare definito, a differenza delle mura e delle sbarre di una cella. L'esigenza di contrapporre alla "decarcerizzazione" le garanzie di difesa sociale ricorre costantemente nella realtà del nostro paese e di molti paesi ed induce a passi prudenti e, talvolta, contraddittori.

Tale esigenze s'intreccia, perchè no?, con le problematiche relative alla abolizione della pena di morte, alla tortura, alla barbarie del trattamento carcerario in molti paesi del mondo, alle vicissitudini del sistema manicomiale e, in definitiva, alle complesse questioni dei diritti umani e di libertà che giungono, purtroppo, fino al terrorismo ed alla guerra, strumenti ugualmente terrificanti che ancora svelano il bieco tentativo di dominio dell'uomo sui propri simili.

Le norme di diritto penitenziario

Per rimanere nell'ambito circoscritto del nostro paese, con riferimento alle norme di diritto penitenziario, non si può non ricordare che la storia -diciamo pure moderna- di un ordinamento penitenziario innovativo rispetto al R.D. 18 giugno 1931 n. 787 parte quanto meno dal 20 aprile '47, allorché fu nominata una commissione ministeriale la quale svolse i suoi lavori durante e dopo la revisione costituzionale. Il progetto predisposto in questa sede non varcò nemmeno l'ambito ministeriale.

Successivamente il Parlamento istituì una commissione di indagine sulle condizioni dei detenuti negli stabilimenti carcerari, affidando ad essa il compito di indicare proposte per l'innovazione delle norme. La Commissione, presieduta dall'On.le Persico, concluse i suoi lavori con una relazione che fu comunicata alla Presidenza del Senato il 22.12.1950.

Iniziò, quindi, un ciclo sempre più ampio di indagini e di iniziative nel mondo del giornalismo e della giustizia, come si rileva dai lavori di una commissione promossa dal Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale di Milano, di cui fu grande animatore il Dott. Adolfo Beria D'Argentine, nonché di numerosi congressi che dibatterono il tema.

Il primo approdo di una grande quantità di studi e ricerche fu rappresentato dalla 1. 26.7.75 n. 354 che avviò un processo di maggiore responsabilizzazione, ai diversi livelli, nei confronti del problema carcerario e delle diverse variabili ad esso connesse.

I primi anni settanta, peraltro, precedenti l'approvazione dell'ordinamento penitenziario, furono caratterizzati da contestazioni e rivolte in quasi tutte le carceri italiane che misero in risalto le disfunzioni del sistema di detenzione ed i metodi antiquati e repressivi che, anziché tendere a recuperare l'individuo, ne facevano spesso un emarginato a vita. D'altra parte il "trattamento" dei detenuti veniva affidato ad agenti di custodia, la cui paga iniziale nel 1973 era di 75.500 lire al mese, impegnati in massacranti turni di lavoro, con un malessere strutturale appena decifrabile, ad esempio, in una ben nota canzone, peraltro d'impronta prevalentemente commerciale, diffusa anni or sono dal cantautore Fabrizio De André.

Oggi opera, invece, una Polizia Penitenziaria ormai svecchiata, che cura anche le traduzioni dei detenuti fra le carceri e nei tribunali e che sovrintende a molti altri compiti, non ultimo -sia detto per un attimo con sottile ironia- quello recentemente previsto per il trasferimento delle buste contenenti gli elaborati redatti dai candidati agli esami di avvocato, secondo le recenti modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense (L. 18.7.03 n. 180).

Al "vigilando redimere" del passato si sono affiancate "solidarietà e sicurezza per una società migliore", come si legge nell'editoriale del n. 4 del 2003 di "Le due città", rivista dell'amministrazione penitenziaria che - a mio sommesso avviso - dovrebbe avvicinarsi di più a tutta la popolazione carceraria, detenuti inclusi, abbandonando un certo tono di autoreferenzialità che credo non entusiasmi nemmeno i volenterosissimi agenti penitenziari.

Ebbene, l'approdo a legge dello Stato del nuovo ordinamento penitenziario, la istituzione del Tribunale di Sorveglianza, gravato sempre più di nuovi compiti, la riduzione dei casi di custodia cautelare obbligatoria, sono apparsi come alcuni dei dati innovativi della gestione di una realtà carceraria nella nostra società in trasformazione.

Si è trattato, però, di un percorso limitato, legato più alle apparenze che alla realtà ed ancora lontano dalla realizzazione delle finalità rieducative che, presenti nella nostra Costituzione, dovrebbero tendere a modificare il comportamento deviante del condannato per favorirne il rientro nella società. Severo è ancora il richiamo, presente all'interno del nostro sistema, ad una aspirazione di fondo espressa dalla convinzione che la difesa della collettività possa essere realizzata in modo coerente e proficuo, attraverso proposte di modelli che reinseriscono completamente il reo nell'ambito del mondo produttivo.

Ecco uno dei punti focali: il trattamento del condannato attiene soltanto alle competenze delle amministrazioni penitenziarie o deve essere sempre più aperto alla attenta e costruttiva partecipazione di esperti di varie discipline, dinanzi ad un pendolo ossessivo che oscilla inesorabilmente fra diritti dei detenuti ed esigenze di difesa sociale?

Il mondo delle carceri

A questo punto vai la pena di ripetere che la "mala Italia" ha subito una trasformazione di considerevole portata. Al recluso del passato, magari malandrino avvezzo a tirar di coltello o detenuto per delitto passionale, sono subentrati anche soggetti imputati di gravi reati in tema di droga, associazione per delinquere, omicidi, rapine, estorsioni, età, con un notevole quoziente di cittadini stranieri e di malati, specialmente giovani o giovani adulti.

Tutta la sconfinata letteratura sulle carceri non ignora la diversa condizione umana e criminale dei detenuti del passato, autori anche di una circolarità di canti significativi, espressione di una disperata presa di coscienza tra emarginazione, malavita, affetti repressi ed anche lotta politica.

Esiste, infatti, una cultura diffusa che ha raccolto nel tempo una documentata congerie di canti, magari privi di trascrizioni musicali, affidati alla tradizione orale.

Solo qualche citazione: Porta romana bella, Stornelli di Regina Coeli, A tocchi a tocchi e la famosa "Fronn' 'e limone". Quest'ultima rappresenta -scrive Giuseppe Vettori in "Canti dal carcere"- "un modello popolare imparentato alla lontana con gli stornelli, utilizzato in circostanze diverse, noto per essere stato assunto come strumento di comunicazione dalla camorra napoletana: poteva servire come saluto rituale, come sfida fra bande diverse o anche per rudimentale contatto dall'esterno con i carcerati".

A proposito di tali aspetti della carcerazione esiste un L.P., Canti e racconti di prigione, raccolti ed ordinati da Sergio Boldrini a Napoli nel 1964.

Tuttavia, attualmente, i detenuti non sono più soltanto affidati alle attenzioni del Beato Giuseppe Cafasso che, nella sua qualità di cappellano delle carceri di Torino riuscì a conseguire effetti sorprendenti sull'animo dei detenuti, ovvero alle cure della Conferenza di San Vincenzo, che si batte per il riconoscimento sociale dei reclusi. E' vero, però, che i nuovi problemi di vivibilità all'interno delle strutture richiedono interventi serissimi e ad ampio raggio.

Il giorno 28 settembre 2003 si è tenuta una giornata pubblica nazionale in cui si è parlato del progetto "ero carcerato..." nell'ambito del quale si è disquisito della esigenza di una nuova solidarietà per combattere l'indifferenza e l'ostilità verso il "pianeta carcere" troppo diffusa presso l'opinione pubblica.

Il lato disumano ed ancora disumanizzante che accompagna comunque la detenzione, infatti, trova una risposta, sia pure generica e debolmente legata in prevalenza al volontariato, nella formazione professionale in carcere e nella collaborazione con enti e privati che promuovano il reinserimento nel mondo del lavoro, per facilitare il percorso di rieducazione cui si ispira il principio della giusta pena.

Alcuni dati significativi

Le cifre, però, offrono dati ancora allarmanti: tra condannati ed imputati al 31.12.02 la popolazione carceraria assommava a 2469 donne e 53201 uomini. Alle soglie dell'indultino -vero e proprio pannicello caldo che ha solo parzialmente tenuto conto delle ripetute sollecitazioni anche del Pontefice della Chiesa Cattolica (che nel nostro Parlamento il 14 novembre dello scorso anno chiese un segno di clemenza verso i detenuti ed una riduzione della pena per stimolare il personale recupero), i detenuti nelle 234 carceri italiane erano oltre 56 mila, di cui 2.565 donne e 53.838 uomini a fronte di 43 mila posti disponibili. I beneficiari dell'indultino, centinaio o migliaio in più o in meno, secondo le indicazioni del DAP assommano a circa diecimila.

Potremo anche ascoltare dagli autorevoli esponenti delle istituzioni penitenziarie cifre più esatte. Non è questo il problema.

La questione carcere rimane un complesso focolaio aperto, con infezioni diffuse, che vanno dalla permanenza dell'art. 41 bis ai meccanismi sanitari, alle strutture manicomiali.

Lo ha anche ricordato il Presidente della Repubblica Ciampi in occasione di una visita al Carcere di Spoleto, oasi felice nel sistema carcerario nazionale (400 detenuti, di cui il 36% provenienti dall'estero ed il 27% tosicomani, 390 agenti della polizia penitenziaria, 380 celle con servizi igienici, 18 sale ricreative, palestra, biblioteca, sartoria, falegnameria): "In una collettività democratica -ha detto Ciampi- la privazione o la limitazione dei diritti fondamentali deve avvenire, come vuole la Costituzione, nel rispetto della dignità umana. Purtroppo, ma necessariamente, il carcere è dura necessità, ma deve offrire al detenuto le condizioni per il suo recupero morale ed il suo futuro reinserimento sociale. Le pene sospendono il condannato dalla società, ma non lo escludono da essa. Anche da questo si misura il grado di civiltà di una nazione".

E' quello che vanno ripetendo le organizzazioni di volontariato attive in ambito penitenziario. Ricorda Maurizio Giambolvo, ricecatore presso l'istituto Pedro Arrupe di Palermo, sul numero 3/2003 di Aggiornamenti Sociali, rivista diretta da Padre Bartolomeo Sorge, che il dibattito pubblico sulle carceri nel nostro paese si è progressivamente intensificato, guadagnando spazio sulle pagine dei giornali e nell'agenda politica.

"Nonostante la sua apparente staticità ed isolamento dal resto della società, il sistema penitenziario non è affatto immobile. Come ogni altra istituzione, infatti, il carcere muta e si evolve, tentando di rispondere alle pressioni ed alle domande sociali provenienti dall'esterno. La profonda osmosi fra carcere e società appare evidente, ad esempio, dalle recenti discussioni sull'art. 41 bis. Se poi si confronta la crescente domanda di sicurezza con le statistiche riguardanti l'aumento delle presenze in carcere e gli ostacoli alla concessione delle misure alternative alla detenzione, il nesso fra le istanze sociali ed il clima all'interno dei penitenziari si mostra ancora più stretto. Guardare dentro le carceri non è un compito per tecnici addetti ai lavori, ma un esercizio di cittadinanza".

Voci dalle e sulle prigioni

La rassegna su internet dei siti, istituzionali e non, che seguono il mondo delle carceri (Associazione Antigone, Papillon, Pianeta Carcere, Le due città, Sanità penitenziaria, Associazione Pantagruel, Peacelink, Arcipelago, Sant'Egidio, etc.) dà atto, sia pur con sfumature diverse, di situazioni davvero insostenibili che destano non poche preoccupazioni sia per gli aspetti sanitari, sia per le regole minime di vivibilità.

Alla denunzia del Comitato detenuti di Poggioreale: "continua l'atmosfera opprimente...i detenuti continuano a tenere la testa bassa e le mani dietro la schiena e parlano solo col vicino a testa bassa" , il Governo italiano (vedi Panorama del 13.2.2003) risponde: "non si tratta di uno stile imposto dalla polizia penitenziaria, ormai esente da approcci militareschi, ma probabilmente di una abitudine dei detenuti che è difficile da estirpare ".

Dinanzi a simili valutazioni, a dir poco pittoresche, è evidente che informare dal e sul carcere, da solo non basta. E' necessario che la stampa, l'informazione produca iniziativa, cambiamento e, possibilmente, denuncia documentata.

Infatti, gli aspetti più indecenti e talvolta al limite della legalità, dell'inferno penitenziario profittano dell'ombra, delle sordità politiche, delle pigrizie burocratiche ed amministrative, ma anche della rassegnazione.

Non si tratta, è ovvio, di considerare il carcere come un Grand'hotel, né di dipingerlo in un quadro distorto, né di recidere le sbarre. Si tratta, piuttosto, di non dimensionarne quantità e portata ad libitum, secondo gli umori di governanti dalla sensibilità elastica, frettolosa e poco lungimirante.

Basti citare il can can con il quale è stata introdotta l'idea del braccialetto elettronico o la palese resistenza che ancora viene attuata allorché si parla di pene alternative e di uniformità con l'esecuzione della pena negli altri paesi europei.

Affermò Giuseppe di Gennaro, uno dei relatori sulla edilizia penitenziaria al II Congresso Nazionale della stampa giuridico forense svolto a Bari dal 6 all'8 dicembre 1969:

"Informati studiosi hanno convenuto che in Italia oltre un terzo della popolazione condannata potrebbe essere trattata in libertà con efficacia molte volte maggiore e con costi di gran lunga minori. Con il "probation system" le società moderne sono finalmente in grado di offrire una soddisfacente alternativa al carcere, che può compiere, con produttivo lavoro, l'opera di riadattamento sociale dei delinquenti.

Non è possibile che la nostra gloriosa tradizione voglia tagliarsi fuori da questo fecondo processo di sviluppo ideologico ed operativo e relegarsi in un mortale abbraccio al passato ".

Ed aggiunse "La funzione penitenziaria è una funzione sociale che perverrà ai suoi irreversibili fini di umanizzazione e rieducazione solo a condizione che non resti isolata ed avulsa da tutto il contesto della società che la circonda".

Verso nuovi modelli di detenzione

Una concezione, ormai superata, vedeva il carcere come una istituzione chiusa sia verso l'interno che verso l'esterno. Oggi, invece, sappiamo che i contatti fra il mondo della prigione e l'ambiente circostante devono essere numerosi e continui.

Il carcere deve integrarsi con le altre strutture della comunità per ricevere da esse la collaborazione indispensabile perchè l'internamento, ai fini di giustizia penale, non si risolva in una alienazione totale dell'individuo ed in una sua definitiva relegazione nella contro-società della delinquenza.

Occorrono integrazione con la società degli uomini liberi, interventi articolati e compositi da parte di più soggetti ed entità impegnate nell'attività di recupero e sbocco verso misure alternative alla detenzione sempre più individualizzate. Se la pena ha da essere individualizzata, l'esecuzione della stessa non può esserlo da meno.

In definitiva, bisogna prendere atto che il regime carcerario intramurario, in linea di massima e tranne ben individuate e circoscritte necessità custodiali, deve essere superato con scelte operative particolarmente adatte alla tipologia delie persone detenute, con trattamento progressivo che accosti sempre più alla punizione (es., isolamento notturno) la rigenerazione attraverso il reinserimento (lavoro ed attività sociali).

Si tratta di una affermazione non temeraria, che aspira a nuovi profili di intervento multidisciplinari.

Si è, ovviamente, lontani da antiche e, peraltro, improduttive teorie di gestione monocratica della popolazione carceraria.

Un esempio per tutti.

Nel lontano 1938 (XVI dell'era fascista, si scriveva anche questo sui libri) Riccardo Conti, direttore degli istituti di Prevenzione e Pena, nell'introduzione ad un suo libro "Il mondo delle prigioni", si interrogava:

"Nella multiforme varietà morale degli elementi; nelle loro condizioni materiali, intellettive e giuridiche; nella diversa condizione psichica e patologica; nell'insorgenza di forme maniacali; nelle congiunture più complesse d'un tentato suicidio o d'un suicidio; nelle svariate forme di atti e reati commessi in carcere; nel tumulto delle ribellioni e delle evasioni; nei meandri dell 'omertà e della calunnia; nella perfidia dei loschi intrighi, delle nefande oscenità; nel grido di dolore e nello schianto improvviso, quale sarà la condotta del direttore? Come farà egli a tenere insieme nell'ordine e nel silenzio centinaia e spesso migliaia di detenuti così eterogenei ed in stato di permanente inquietudine? Come farà egli a trasformare, riplasmare, correggere, rieducare questa gente che conosce tutte le aberrazioni e tutti i misfatti e nel cui fondo sovente non manca il disprezzo e l'odio per chi li cura e li amministra? ".

Questo operatore penitenziario, nella solitudine del suo ruolo, si poneva giustamente un interrogativo legato non tanto alla tecnica dell'imprigionamento (che attiene al sistema della prova e della conseguente sanzione che necessita di autonoma trattazione) quanto alla difficoltà insita in un solo uomo di poter "sorvegliare e punire". L'imprigionare - sosteneva Michel Foucault- assicura la privazione della libertà ed ha sempre comportato un progetto tecnico. Il passaggio dei supplizi, con i loro smaglianti rituali, la loro arte composita di cerimonia della sofferenza, a pene in prigioni nascoste entro massicce architetture e custodite dal segreto delle amministrazioni, non è il passaggio ad una penalità indifferenziata, astratta e confusa, è il passaggio da un'arte di punire ad un'altra, non meno sapiente della prima.

Mutazione tecnica di questo passaggio, un sintomo ed un riassunto: la sostituzione, nel 1937, della "catena" dei forzati con la vettura cellulare.

E' giunto il momento di chiedersi, ancora una volta, che fare.

La risposta è nella richiesta a gran voce di una riforma del codice penale e per esso del sistema delle sanzioni, cui segua quello del trattamento e dell'individualizzazione dalla fase esecutiva che apra sempre più sbocchi a misure alternative alla detenzione.

E' quello che si attende, magari ricordando lo spirito, la cultura, il genio di un grande giurista quale fu Giuseppe Zanardelli, il cui codice penale fu in vigore dal 1890 al 1930, epoca in cui i fratelli Alfredo ed Arturo Rocco diedero al regime il "più fascista dei codici".

Ebbene, Zanardelli -non è pleonastico ripeterlo a cento anni dalla sua morte-ammoniva che "le leggi devono essere scritte in modo che gli uomini di scarsa cultura possano intenderne il significato; e ciò deve dirsi specialmente di un codice penale, il quale concerne un grandissimo numero di cittadini anche delle classi popolari, ai quali deve essere dato modo di sapere, senza bisogno di interpreti, ciò che dal codice è vietato". E, con riferimento allo scopo della legge penale, Zanardelli affermava che essa "né delinquente, non sempre volgare né pervertito, non dimentica l'uomo ed il cittadino e non ha soltanto ufficio di intimidire e di reprimere , ma eziandio di correggere e di educare ".

Non si vuole, quindi, evocare "la dolcezza delle pene" cara a Cesare Beccaria, ma si chiede di prendere atto che le istituzioni totali come le strutture penitenziarie attuali, specialmente quelle ancora brutalmente fatiscenti, non sono la risposta giusta e costituzionalmente corretta ai problemi derivanti dalla diffusione dei fenomeni criminali, in quanto sarebbe davvero grande ipocrisia affermare che la penalità moderna non osa più punire i delitti, ma solo rieducare i delinquenti.

Il mutamento genetico della popolazione carceraria esige molti sforzi in più perchè la condizione umana e quella criminale abbiano risposte adeguate alla luce delle teorie custodialiste moderne le quali per lo più, ci si trovi dinanzi a colletti bianchi o a poveri cristi, hanno maturato atteggiamenti e giudizi rispetto al carcere, che è da intendere sempre più residuale in una società che si evolve e che deve generare al suo interno gli strumenti per la tutela dei diritti di libertà e per la difesa sociale.