L'ELLESPONTO E IL RUOLO DEI PENTITI
Non è possibile ridurre in estrema sintesi le riflessioni che un penalista può manifestare su ciò che ha rappresentato nella città di Taranto la malavita negli anni intorno al 1990.
E’ certo che in quel periodo s’innestò una spirale poco controllata di relazioni negative fra gruppi non compatti e definiti, specialmente ad indirizzo e struttura familiare, nel momento in cui le fonti del guadagno illecito si trasferivano dal contrabbando alla diffusione della droga, passando attraverso l’usura. Qualcuno tentò di infiltrarsi, non senza insuccessi, nel mondo degli affari, dell’imprenditoria e della politica, allorché l’economia tarantina appariva ancora rigogliosa, anche se con un trend non crescente. Tutto si mosse attraverso una tattica improvvisata e poco strategica, sicché fatalmente l’elefantiasi di alcuni gruppi criminali si frantumò presto con gli effetti devastanti che la stampa quasi quotidianamente registrava. Ci si chiede ancora se la risposta del sistema sia stata del tutto sollecita.
Certo è che con il maxi processo denominato “Ellesponto”, vero coacervo difatti e misfatti, conclusosi nel maggio 1997 dopo circa due anni e mezzo, iniziò il crepuscolo dell’attività malavitosa nella città di Taranto. In quel complesso procedimento si inserì, in modo consistente all’interno della fisiologia del processo penale, un elemento patologico rappresentato dal pentimento e dalla collaborazione.
Era stato messo in atto un proposito di “lotta alla criminalità” e, quindi, il processo apparve strumento di lotta col rischio di trasformarsi da complesso di regole in lotta ad armi impari, con imbarbarimento delle procedure ed il pericolo di assecondare, certo inconsapevolmente, possibili astuzie e mezze verità dei pentiti. Non fu sempre facile per gli avvocati dimostrare che le bugie non erano la verità. Eppure, almeno nella fase di primo grado, in quel processo Ellesponto si manifestò uno sforzo di equilibrio ed un proposito di seguire una controtendenza rispetto all’accettazione supina di tutto ciò che pentiti, dichiaranti o collaboratori andavano raccontando nelle aule di giustizia, essendo saliti, magari all’ultimo ora, sul carro del sistema premiale. Non sono mancati, quindi, anche dalle nostre parti processi “storici” ma anomali che, in ossequio alla storicità hanno indotto a formulare condanne esemplari tali da far perdere l’orientamento rappresentato dalla norma, dai riscontri non appannati e dalla equilibrata interpretazione della norma stessa.
Oggi non saprei dire se all’epoca abbiano vinto o perso difesa o accusa, perché ciò può far piacere solo a chi voglia ancora parlare di giustizia con lo stesso criterio di certi spettacoli televisivi. Mi piace solo ricordare che le sentenze penali sono l’espressione della scelta di criteri generali che devono valere per tutti e che devono rispettare ancora l’originario principio accusatorio che fu posto a base del nostro processo penale con la riforma del 1988.
E proprio quel tipo di processo accusatorio per il quale intendo ancora battermi come mi sono battuto negli armi ‘80, allorché andavo anche in giro per l’Italia insieme con altri “profeti disarmati” a sostenere le buone ragioni della riforma processuale penale.
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