1975 Diritti Civili

DIRITTI CIVILI E LIBERTA' DEMOCRATICHE

Le relazioni dei compagni Balzamo e Zagari, esaurienti e approfondite, nel complesso delle argomentazioni addotte sulla vasta problematica riguardante l’amministrazione della giustizia nel nostro paese, presentano una lacuna per ciò che riguarda la funzione dell’avvocato nel sistema giudiziario.

Se è vero che appare indispensabile parlare dei problemi della magistratura, della struttura e della revisione del sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura, della istituzione del giudice di pace e del giudice monocratico, è vero anche che non bisogna trascurare che l’interlocutore del magistrato, del «nuovo» magistrato che noi auspichiamo, nel momento giudiziario è l’avvocato il portatore delle istanze del cittadino. Sicché dobbiamo pensare anche a un «nuovo» avvocato, attraverso l’individuazione della funzione dello stesso, certamente tecnica, ma che realizzi in modo aperto la insostituibile opera intermediatrice fra società e giustizia.

La domanda di giustizia che oggi parte dal cittadino perché venga realizzata dal magistrato «a misura d’uomo» e non in ossequio al mito della «certezza del diritto» che si risolve nella cristallizzazione di principi a difesa degli interessi della classe dominante si realizza ancora solo tramite un legale. E l’avvocato, nel formulare le richieste di chi assiste, non può non tener conto che il fatto singolo spesso non risponde soltanto a una semplice ed egoistica esigenza di giustizia di una parte, ma può risolversi in un fatto di più vasta importanza sociale, per i contenuti ed i risvolti che lo caratterizzano.

Orbene, il nostro partito, nell’individuare una politica socialista per la giustizia, deve approfondire anche i problemi degli esercenti la professione forense, che nel nostro paese sono oltre quarantamila, non solo per far proseguire quel discorso sui e con i »ceti medi» che è in atto anche in altri partiti o gruppi della sinistra, ma per cogliere i fermenti della nuova avvocatura, interprete di una richiesta di giustizia, democratica e costituzionalmente corretta, certamente disancorata dalla visione del legale affarista, «azzeccagarbugli», causidico o »chierico della giustizia».

Non è da trascurare, infatti, che spesso proprio alle meditate iniziative di avvocati nei giudizi penali, civili o amministrativi, si devono molte delle più importanti sentenze della Corte Costituzionale, frutto di quella continua verifica della conformità della legislazione ordinaria alle norme costituzionali, che sovente nasce nel momento in cui s’imposta l’indagine difensiva per la tutela degli infiniti casi che riguardano i cittadini.

E un contributo efficace viene ancora dall’avvocato nell’attività difensiva, allorché egli collabora con il giudice nell’interpretazione delle norme nuove, specie se elastiche, nonché nell’interpretazione evolutiva delle norme stesse. Per non dire dello stimolante impegno che all’avvocato deriva del nuovo processo del lavoro, allorché è chiamato ad individuare la casistica offerta dalla nuova normativa, prospettando al giudice il thema decidendum, ovvero dal processo penale, sia nel campo del diritto sostanziale che processuale.

Si pensi ai processi per i diversi reati di vilipendio, a quelli derivati dalla contestazione studentesca, dalle lotte sindacali o dalla presenza attiva dei giudici impegnati nell’opera di rinnovamento in seno alla magistratura. In tali casi gli avvocati democratici non solo hanno dovuto apprestare la loro attività tecnica, ma hanno dovuto individuare, in una visione ampia e articolata degli interessi in gioco e delle ragioni giustificatrici dell’agire, i valori degni di preminente tutela.

Una nuova avvocatura, dunque. Ma purtroppo ancora oggi disciplinata legislativamente in modo corporativo da una normativa fascista del 1933 che deve essere ormai sostituita. In tale prospettiva, anche per stimolo degli avvocati democratici della FESAPI (Federazione Sindacati Avvocati Procuratori Italiani) in cui sono impegnati diversi militanti socialisti, i senatori Viviani, Cucinelli e Licini hanno presentato al Senato il 12.8.1974 un disegno di legge che propone una nuova disciplina della professione di avvocato, in alternativa a una vecchia proposta Gonella che viene ancora sostenuta da parte dello schieramento conservatore della classe forense e che è ancorata a una visione corporativa della professione, che perpetua il gattopardesco trucco del «tutto cambi purché tutto resti come prima».

Non è questa la sede per l’analisi della proposta Viviani che, pur non sostenendo la pubblicizzazione o la statalizzazione della professione, prevede almeno un ordinamento professionale nuovo che tenga conto della rinnovata realtà del mondo forense. Ma è certamente questa la sede per chiedersi se i compagni socialisti, qui presenti a diverso titolo, ma comunque interessati al rinnovamento reale dell’amministrazione della giustizia, concordino nel ritenere che «il libero professionista esercente l’attività forense, lungi dall’essere inteso, secondo schemi tradizionali, soltanto tecnico del diritto, è invece del diritto e della giustizia elemento attivo e sensibilizzatore e, riverberando le istanze della società nella quale è inserito, ne promuove il progresso e il costante adeguamento ad esso. L’avvocato contemporaneo, nella varietà delle sue provenienze sociali, avverte la sua funzione di propulsione; non più come tecnico, subordinato interprete dileggi che gli sono indifferenti, ma come operatore di una società in fermento che mira ad una radicale trasformazione delle strutture. Funzione dell’avvocato nella società contemporanea è pertanto non più quella di subire legislazione e giurisprudenza, ma di aprire il corso a una nuova e moderna concezione della professione forense.

È evidente che questo sistema è paternalista se vogliamo essere buoni, brutalmente oppressivo se vogliamo essere più concreti nelle definizioni. Allora, quando parliamo di riforme del sistema penale militare, dobbiamo tener presente che non ci si deve limitare e non ci si può limitare a correggere alcuni articoli più strani del codice militare, ma si deve combattere globalmente contro un sistema di repressione globale, che nella sua articolazione è tanto più pesante, aifiittivo e pericoloso.

Sarebbe un lungo e minuzioso lavoro di commissione di studio. Consideriamo soltanto alcune caratteristiche, in primo luogo la contemporanea coesistenza di durezza e discrezionalità. Si osserva un aggravamento delle pene rispetto alla normale codificazione penale. Osserviamo che nell’ambito del codice militare penale, numerosissimi reati, più della metà, non sono altro che previsioni di resto già esistenti nell’ambito della codificazione ordinaria, però maneggiati diversamente. La giustificazione potrebbe essere che i beni tutelati sono diversi da quelli che difende il codice penale ordinario. Un esempio: nel caso di violenza o minaccia, il codice penale ordinario tutela la persona o la dignità, sempre a livello personale. Nel codice militare penale il bene tutelato é la disciplina. Allora, scatta un curiosissimo meccanismo: la violenza o minaccia fra pari è considerato un comportamento non certo lodevole, però sanzionato con pene relativamente miti. La violenza o minaccia da parte del superiore nei confronti dell’inferiore è considerata come esuberanza, come intemperanza a livello personale ed è sanzionata in modo estremamente lieve. La violenza o minaccia da parte dell’inferiore nei confronti del superiore, poiché colpisce questo misterioso bene della disciplina, addirittura cambia nome, non viene più chiamata violenza o minaccia, diviene insubordinazione, ed è punita con pene severissime.

Questo pino meno è il meccanismo. Vengono introdotte fattispecie di reato che non esistono nella normale legislazione penale, e, anzi, vengono considerate come fattispecie criminose, comportamenti che non solo nella vita civile sono normali, ma alcuni dei quali addirittura vengono considerati come doverose esplicazioni di attività democratica. Un esenipio: la richiesta, l’esposto, la domanda, presentati da più di tre persone sono definito touJ-coasH ansmutinamentov e appunto gravemente puniti. La dichiarazione non autorizzata viene punita, e si badi bene, deve essere la dichiarazione più innocente del mondo, assolutamente anodina, non deve concernere il segreto militare, non deve contenere fatti di vilipendio, o di oltraggio, altrimenti ricade in tutta una serie di altre previsioni. La semplice dichiarazione: il rancio è buono. frutta, come minimo da sei mesi a un anno. Nello stesso tempo, oltre a questo aggravansento delle pene, per cui comportamenti leciti vengono considerati illeciti, comportamenti già penalizz.ati dal codice penale ordinario vengono considerati con più gravità; sussiste la già accennata graduazione di pene a seconda che si tratti dell’inferiore nei confronti del superiore, di pari grado, eccetera.

Ma, parallelamente a ciò, si esercita la più ampia discrezionalità, per cui, in effetti l’ordinamento serve più come minaccia che come sanzione precisa, in modo che il soggetto si astenga dal commettere reati o comunque dal tenere comportamenti antigiuridici. Per cui, data la congerie di norme punitive, e dato che la discrezionalità è affidata a tutti, fino all’ultimo caporale, il soggetto, il «paziente» di questo sistema repressivo non si può nemmeno salvare col conformismo repressivo, non può neanche dire: io sto tranquillo e non mi capita niente. No signore. Gli viene continuamente minacciata una sanzione, una sanzione che gli si può applicare sulla base delle norme vigenti, e poi soltanto quando ha promesso di stare bravo e di non fare certe cose, o comunque sono passati i cinque minuti di nervosismo del superiore, solo a questo punto, nell’ambito della discrezionalità, la sanzione gli viene rimossa, perché appunto, esiste una vasta graduazione sia di iniziativa punitiva, sia di facoltà, sia addirittura di gradi di repressione, e ci sono le punizioni disdplinari, che di disciplinare hanno soltanto il nome, perché come abbiamo visto hanno in effetti carattere detentivo. Abbiamo poi le punizioni penali. Infatti, con una norma di chiusura, o meglio, di apertura, il codice penale militare prevede il reato di disobbedienza, e cosi per un qualsiasi atto non conforme, si può passare dalla più lieve delle punizioni, erogabile da un graduato di truppa, fino alla definizione di reato di disobbedienza che comporta la messa sotto processo del soggetto, il carcere preventivo, comunque inevitabile, il terrorismo del «ti mando a Peschiera», e frasi di questo genere.

Altra caratteristica del sistema ancor più chiaramente e pesantemente in- costituzionale, è il fatto che il congiunto disposto del codice penale militare, del regolamento e anche del codice penale ordinario, tendono a produrre una efficace impermeabilità del sistema militare nei confronti della società civile. Questa impermeabilizzazione funziona a doppio senso, poiché si svolge dall’interno verso l’esterno e dall ‘esterno verso l’interno. In altre parole: ogni dichiarazione che non sia consentita è vietata; e quindi è molto difficile, perlomeno nell’intenzione del sistema, che alcunché esca dall’esercito per avere un contatto con la normale vita non solo civile, ma anche democratica. Ma funzione anche dall’esterno verso l’interno: il nostro codice penale ordinario ha infatti conservato un articolo (il 266), «dei militari a disobbedire alle leggi». Mentre la rubricella pudicamente parla di istigazione, disobbedire alle leggi, ed è difficilmente attaccabile sotto questo profilo; in realtà quando l’articolo parla di istigazione a disobbedire per esempio «ai doveri» ciò è assolutamente indifendibile a priori. Abbiamo quindi una norma in bianco, una norma di rinvio, che non fa riferimento ad altra legge e neppure a degli ordini, ma a dei comportamenti, alla presunzione di certi comportamenti, insomma a delle previsioni.

Si legga il commento del Manzini su questo articolo, dove dice che finalmente si è posto fine al fantasma ciarlatanesco della libertà di opinione, propagandato dalla rivoluzione francese, e grazie a Dio, queste cose qui tra i militari è il caso di non vederle più. Un altro giurista rileva che il vendere, il diffondere Guerra e Pace o altri scritti di Tolstoi, nelle Forze Armate, costituisce indubbiamente questa fattispecie, perché sono note le idee pacifiste di Tolstoi (purché siano capite dai militari, e qui per fortuna c’è una grossa riserva a favore del sistema, dat. la nota presunzione dl analfabetismo del soldato semplice) idee contrarie alla disciplina, ai aprincipi», eccetera.

Non mi dilungo perché non voglio fare del folklore. Se noi leggiamo il famoso regolamento di disciplina che prima citavo, la prima reazione perfettamente giustificata è una reazione di ilarità, perché 180% èun testo che muove al riso; e non si capisce che la sua operatività, proprio forse grazie alla sua apparente idiozia è diabolica, perché fa si che nessun comportamento sia definito a priori come corretto e non corretto, come giuridico e non giuridico, come passibile o non passibile di punizione.

Infine, proprio in questa sua enorme confusione il sistema, nel quale includo sia il codice penale che il regolamento, crea un concetto di dovere assolutamente mistificatorio e utile soltarno a fini minatori dal punto di vista della sanzione. In altre parole, lungi dal dire che il soldato deve obbedire alle leggi, come tutti i cittadini del resto, in più egli deve obbedire agli ordini, qualcosa di immanente che non ha fonte specifica e che quindi può piombare sulla testa dello sciagurato da qualsiasi parte, e che viene definito in maniera tanto letteraria quanto ideologica e confusa, proprio per far si che in qualsiasi momento possa essere imputata al soggetto una qualsiasi violazione al dovere che egli non ha il bene di conoscere.

Ciò premesso, se vogliamo parlare di riforma dell’esercito dobbiamo considerare che una qualsiasi riforma (ovviamente in senso democratico) funzioni, essa deve essere aiutata e sostenuta da una base che la recepisca e la difenda. Orbene, questa base esiste e si sta formando nell’esercito. Nel corso degli ultimi due o tre anni, i movimenti di base nell’esercito sono stati numerosi, chiari e clamorosi. Li potremmo anche identificare uno per uno, fatti di limitata democrazia, come pretendere di leggere un giornale, neppure di propagandare delle idee politiche, cosa che evidentemente ogni cittadino può fare.

Potremmo dare a ognuno di questi episodi un numero di molo, perché tutti hanno purtroppo prodotto una vicenda processuale, un’immediata e durissima repressione da parte del sistema. Allora, se vogliamo considerare la possibilità di riforma nel senso democratico delle Forze Armate, dobbiamo innanzittutto sapere che, per prima cosa, bisogna smantellare questo sistema repressivo, e questo sistema repressivo comprende il codice penale militare, il regolamento e anche alcuni articoli del codice ordinario.

È probabilmente una riforma difficile politicamente, ma tecnicamente non presenta alcuna difficoltà, perché per la maggior parte dei casi non si tratta assolutamente di sostituire delle norme con altre, di sostituire a una legge mal funzionante un’altra legge. Si tratta semplicemente di buttar via la maggior parte delle norme vigenti in quanto fasciste o comunque anticostituzionali.

Solo così potremo pretendere e porremo aspirare a una situazione in cui gli appartenenti alle Forze Armzte, i soldati di leva, smettano di essere cittadini di quarta classe, e se sbagliano possano essere giudicati da dei giudici che siano effettivamente dei giudici.