1991 La Difesa

LA DIFESA DEL CITTADINO TRA CRISI DELLA GIUSTIZIA E CRISI DELLA LEGALITA'

“Quando lo Stato non è in grado di dare una risposta utile nel tempo, e quindi di qualità, alla domanda di giustizia del cittadino, questi non è in grado di far valere le sue ragioni e conta di meno.

Ma quando fasce sempre più vaste di cittadini contano di meno, la stessa democrazia, che è partecipazione, coinvolgimento e controllo sociale, si indebolisce e si aprono varchi a disegni anche autoritari. È lo Stato di diritto che allora è in crisi, e con esso la credibilità dell’avvocato e del magistrato, che appaiono sempre più strumenti inutili. Questo è, oggi, uno dei nodi da sciogliere, sul quale occorre misurarsi, ponendoci in discussione anche noi, avvocati e magistrati, per la responsabilità che abbiamo di fronte al Paese: se lo Stato entra in crisi, vano è ogni sforzo per migliorare istituzioni e istituti.

Questo è il complesso problema che intendiamo affrontare col nostro nono Congresso, perchè avanzi nel Paese la consapevolezza della centralità della questione giustizia e non si disperda quanto in questa istituzione spendiamo di noi stessi”. Queste parole esprimono in modo abbastanza eloquente il senso che abbiamo voluto dare al dibattito del nostro nono Congresso ed il messaggio che intendiamo proporre agli avvocati italiani e per gli avvocati italiani, riaffermando una funzione non solo tecnico- professionale ma anche civile e sociale dell’avvocatura nella realtà della giustizia e nel paese, espressa dal sindacalismo forense in venticinque anni di intensa, costruttiva attività.

Siamo pertanto onorati per la partecipazione a questa nostra assise delle autorità regionali, provinciali e locali, del presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Galloni, del segretario del Consiglio Nazionale Forense Ricciardi. Ad essi va il mio cordiale e deferente saluto oltre al ringraziamento più vivo per la disponibilità mostrata nei nostri confronti. La loro qualificata presenza testimonia anche l’ampiezza e l’intensità dei problemi e del bisogno di reciproca conoscenza che coinvolge chi è giornalmente impegnato sul fronte dell’emergenza giustizia nonchè dell’impegno civico e politico.

Confido che questo Congresso non deluda le loro aspettative e si innesti in quel serio alveo di progresso e di riforme che caratterizza la loro esperienza al servizio del paese. Un affettuoso saluto rivolgo anche ai rappresentanti delle associazioni forensi e giudiziarie, dell’Associazione Nazionale Magistrati, dei sindacati e delle altre organizzazioni che hanno accolto il nostro invito. Essi interverranno nei prossimi giorni, quando il Congresso, entrando nel vivo, si aprirà alla dialettica che certamente sarà vivace e positiva.

IL SINDACATO FORENSE PER L’UNITÀ DELL’AVVOCATURA E PER LE RIFORME DELLA GIUSTIZIA

Torniamo nel Trentino dopo cinque anni e tale ritorno, forse, non è casuale, perchè rappresenta un significativo momento di verifica e - a mio avviso - di conferma della scelta operata a Riva del Garda nel 1986, in occasione del nostro settimo Congresso sul tema, altrettanto impegnativo, “I costi umani della giustizia”, che avviò il passaggio della nostra associazione da una struttura federale ad una struttura unica nazionale, che rappresentasse il punto di riferimento e di coesione dell’avvocatura italiana, o, quantomeno, di quella più sensibile al ruolo nuovo del legale che la nostra carta rivendicativa - documento base della costituzione della FeSAPI, oggi Federavvocati, Sindacato Nazionale degli Avvocati - aveva prefigurato venticinque anni or sono.

Dopo il Congresso di Riva del Garda, in occasione del Congresso straordinario di Bologna nel 1988, inseguimmo e rcalizzammo formalmente il nostro sogno unitario ma esso fu sfiorato da una scissione, di cui ancora oggi non si riescono a cogliere le motivazioni. Chi ha affermato che essa fu operata più sul piano dei contrasti personali che sui fini non dovrebbe essere lontano dal vero. Il processo di rimozione degli ostacoli è però in atto e le prospettive sono confortanti.

In questi anni, ad onta degli incerti e dei dubbiosi che - come è naturale - potevamo avere anche nel nostro interno e che potevano aspirare a scucire la trama unitaria, ci siamo impegnati con forza per rendere realtà l’idea di unità. È noto, inoltre, il lavoro svolto in tante sedi giudiziarie a sostegno della riforma dcl processo penale e sono patrimonio di tutti le battaglie, alcune vinte con ampia soddisfazione, per le tariffe, per un sistema fiscale più equo, per la previdenza, per le strutture giudiziarie, per il processo civile.

Su questi argomenti, ovviamente, si intratterrà nella relazione di domani il segretario generale Pelà. Ed infine a Rimini, lo scorso anno, in occasione della seconda assemblea dell’avvocatura, pur fra vivaci e non sopiti contrasti, abbiamo privilegiato ancora e comunque l’idea di unità di tutta l’avvocatura, convinti come eravamo e siamo che le scissioni e le divisioni non pagano, specialmente in presenza di obiettivi comuni e seri.

E ne abbiamo tanti! Dalle riforme legislative in generale a quella dell’ordinamento forense in particolare, dalle strutture e dai mezzi per far funzionare l’amministrazione giudiziaria, al coacervo di problemi che una ricognizione, ormai ripetitiva, ha consentito di individuare col passare degli anni.

IL COLLEGAMENTO CON LE ALTRE ASSOCIAZIONI FORENSI E CON L’A.N.M.

Altro piano sul quale ci siamo mossi è quello del collegamento con le associazioni di settore (camere penali, camere civili, giovani avvocati, associazione amministrativisti) per realizzare un fronte comune e coordinare gli interventi.

L’intesa è stata allargata all’Associazione Magistrati ed ha trovato espressione esterna anche in occasione delle tradizionali cerimonie di apertura dell’anno giudiziario nel gennaio 1991 nei Distretti di Corte di Appello, alle quali le associazioni aderenti al “Comitato avvocati e giudici per la giustizia” hanno deciso di non prendere la parola, per protesta e non per diserzione.

Quella manifestazione, che faceva seguito ad uno sciopero promosso unitariamente nel dicembre ‘90, è stata una ulteriore dimostrazione della possibilità, esistente fra tutti gli operatori della giustizia di lavorare insieme sui programmi sui quali si riscontra comunanza di vedute, dinanzi all’inerzia ed alla incapacità del Governo e del Parlamento nell’affrontare la gravissima “emergenza giustizia”. Ulteriore attiva presenza ha dimostrato la Federavvocati all’interno della Commissione unitaria istituita presso il Consiglio Nazionale Forense per studiare la costituzione di un organismo rappresentativo di tutta l’avvocatura italiana: argomento che sarà ripreso a Trento nel settembre prossimo in occasione del Congresso degli Ordini Forensi.

LA DIFESA DEL CITTADINO

Ora siamo qui, a riproporre il nostro messaggio e, se ci è consentito, a confrontarci, senza iattanza, ma con la convinzione che il nostro sperimentato bagaglio di esperienze ce lo può consentire, non solo con gli altri operatori giudiziari, ma anche con i politici, con la stampa, la gente, che stenta ormai a credere che nel nostro paese si amministri una giustizia che sia davvero giusta e che è sempre più persuasa che la giustizia italiana stia diventando soltanto un enigma, che nessuno ha più voglia di risolvere.

Per questo, perchè il momento è davvero difficile ed ha raggiunto il punto di non ritorno, siamo indotti a dare per scontate ed acquisite le problematiche riguardanti il nostro assetto ordinamentale, confortati anche da indagini sociologiche svolte o in corso di approfondito svolgimento sul ceto forense. Intendiamo però confermare, in ordine alla difesa del cittadino, che è necessaria la salvaguardia sia dei diritti del singolo sia dei diritti diffusi nella collettività, nella quale si disperdono sempre più i soggetti deboli. Occorre inoltre sempre bilanciare garantismo e difesa sociale. Non a caso già a Riva del Garda, nel 1986, parlando dei costi umani della giustizia, determinammo un coinvolgimento dei congressisti sullo snodo, davvero centrale, riguardante il dissidio fra autorità e libertà, nella prospettiva della riforma processuale penale, anche con riferimento ai possibili abusi nell’esercizio del potere di coercizione.

In molti paesi la crisi della stato sociale ha indubbiamente allontanato il cittadino dalle istituzioni, determinando neoformazioni sociali e professionali, disparità fra interessi di classe, di settore, di professione più privilegiati ed altri meno organizzati e rappresentati, con conseguente crisi di rappresentanza di fasce di cittadini anche categoricamente individuabili: consumatori, contri - buenti, giovani, femministe, lavoratori irregolari, minoranze culturali, ecologisti, minori.

Le grandi organizzazioni, strutturate all’interno di quella che oramai anche in Europa viene definita società dei due terzi (a fronte di un terzo che tendenzialmente contiene cittadini esclusi dal ciclo produttivo, espressione delle nuove povertà), aggruppando una parte di soggetti, stipulando accordi, componendo conflitti fra i diversi interessi, hanno prodotto differenze sul piano della legalità ed hanno scaricato sul giudice e sulla sua decisione il rispetto dei limiti della garanzia dei diritti individuali.

E tempo però che, nel nostro paese, l’art. 3 della Carta Costituzionale torni a rappresentare davvero un punto di riferimento per un rinnovato impegno solenne, perchè uguaglianza formale e sostanziale si incontrino, perchè tutti i cittadini possano vivere e realizzare i loro diritti fino in fondo, perchè siano superate le sole condizioni minime di convivenza che ora la Repubblica Italiana sembra a stento assicurare ai consociati, addirittura non garantendo nemmeno l’efficienza del servizio di giustizia e dell’attività giurisdizionale. Quest’ultima, fra l’altro, copre un’area ben ridotta di quella realtà articolata e complessa in cui si compromettono i diritti e si viola continuamente il principio di eguaglianza.

Il recupero della legalità costituzionale, la pratica attuazione della stessa e la crescita della coscienza civile e sociale del paese rappresentano, indubbiamente, un percorso obbligato perchè il diritto di difesa e d’accesso alla giustizia venga assicurato in tutta la latitudine possibile. Insomma, per dirla con Ronald Dworting, perchè i diritti vengano presi sul serio.

LA CRISI DELLA GIUSTIZIA E DELLA LEGALITÀ

Quanto fin qui esposto e lo sconsolante scenario che offre quotidianamente - anche attraverso la martellante diffusione di notizie da parte dei mass media - la nostra giustizia, consente già di osservare che sull’argomento vi è almeno consonanza di valutazioni. Siamo al collasso pieno e le strutture giudiziarie non reggono più.

Tuttavia non ci si può esimere dal denunciare anche il fallimento completo delle recenti sedute previste sul tema in Parlamento: aule deserte, povertà di discussione, confronto e proposte, come se la materia fosse delegata ad altri e rientrasse nell’esclusiva sfera di competenza dell’esecutivo, all’interno del quale ha peraltro operato, con infaticabile tensione, il giurista Giuliano Vassalli.

E così che il dato ontologico di questo nostro congresso emerge in tutta la sua rilevanza: la crisi della giustizia e, quindi, la materiale garanzia di difesa del cittadino e, quindi, l’operato dell’avvocato e, sotto altro aspetto, del magistrato, sono casualmente conseguenza della crisi della legalità, sia del principio di legalità sul piano teorico, sia della legislazione e della giurisdizione sul piano pratico. Il nostro tema pendola, infatti, tra la teoria generale del diritto e la politica del diritto.

A seguito di diverse analisi empiriche, sociologiche, tecniche svolte in questi anni (ricordiamo tutti anche il tentativo di sperimentare un approccio con criteri di tipo aziendalistico, in termini di costi e benefici, per la soluzione di problemi pratici dell’amministrazione giudiziaria, con la Conferenza della Giustizia di Bologna) sorge l’esigenza di uno sforzo di valutazione ed elaborazione, in modo globale, da parte della cultura e dei politici, di tutti gli elementi sin’ora raccolti per individuare le tendenze e dar sostanza e credibilità alle proposte.

QUALE DEMOCRAZIA - QUALE COSTITUZIONE

Se la legalità è in crisi, è anche in crisi la nostra società e, in senso più ampio, la nostra democrazia? Una risposta potrebbe essere di tipi concettualmente neutrale e, senza diffondersi in giudizi nè negativi, nè positivi, potrebbe portare ad affermare che un regime democratico ha un suo stato naturale di trasformazione, in quanto la democrazia è dinamica e la sua antitesi è invece un regime statico e sempre uguale a se stesso.

Ma un’altra risposta potrebbe portare a dire che se nessuno pone oggi in discussione il nostro regime democratico, tuttavia la instabilità governativa e politica è ormai abbastanza accentuata. Ogni anno da almeno vent’anni, stiamo facendo ricorso continuo al popolo (scioglimento anticipato delle camere, referendum, altri tipi di elezioni cui si connette comunque un significato generale, etc...). Il consenso al sistema, che secondo alcuni potrebbe essere meramente presunto, in Italia, invece, è continuamente sottoposto a verifiche. Malgrado ciò o proprio a causa di ciò, non cessano di crescere le aspettative riguardanti il cosiddetto scambio politico. Le aspettative sono puntualmente deluse ed alla instabilità dei governi corrisponde la permanenza del ceto politico e del bacino centrale di esso.

Lo scambio, come rapporto di costante interazione e contrattazione tra sfera politica e società civile, si realizza poco e male e si è ormai pervertito in scambio “interno” alla politica. In tale contesto il patto costituzionale si tinge, ovviamente, di chiaroscuri e di ombre, di incertezze e di visioni confuse. Tende a proporsi una giustizia materiale che fatalmente pretende il declino del formalismo giuridico, inteso come sistema di garanzie universali ed indipendenti dal caso concreto. Non è quindi un caso che la crisi della legalità, oggi, in Italia passi attraverso l’opera di quanti pongono addirittura in discussione la legge fondamentale dello Stato e cioè la Costituzione con i suoi principi e contenuti, di cui innanzi già ho parlato trattando del principio di eguaglianza.

Penso si sia tutti consapevoli del fatto che la nostra Costituzione, come tutte le Costituzioni - e come affermò uno dei suoi padri, Piero Calamandrei - contenga norme che esprimono la protesta contro i privilegi del passato ed il solenne impegno di impedime la restaurazione nell’avvenire. Essa, cioè, è in polemica contro il passato, ma anche contro il presente, contro la società italiana come essa è, ancora così lontana da quella società che la Costituzione pone l’obbligo di creare. Sicchè, se la Costituzione si presenta come una specie di promessa rivoluzione nella legalità, il processo di trasformazione della società nel suo complesso deve essere assecondato per fare si che il cittadino sia investito di diritti e di vera dignità sociale; gli organi dello Stato siano soggetti all’obbligo di perseguire determinati fini, tra cui la rimozione degli ostacoli che di fatto limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini; i cittadini abbiano tutti diritto all’istruzione, al lavoro, etc; la giustizia, non più intesa come sovrastruttura o simbolo della divisione tra Stato e Società, sia permeata di questa nuova dimensione, sia nel rapporto dei giudici fra loro, sia nel rapporto con gli altri poteri.

Di fatto, però, l’amministrazione della giustizia, che secondo una semplicistica visione dovrebbe essere lontana dal mondo della politica, ormai da molti anni è stata oggetto di particolare e complesso interesse da parte della “politica”. Senza voler entrare in dettagli, indico l’oramai remota ma significativa lotta di una parte della magistratura per non applicare la Costituzione, attraverso la distinzione fra norme programmatiche e precettive, nonchè i propositi, da più parte oggi anche autorevolmente espressi, di cambiare la nostra Carta Costituzionale.

Come è possibile non parlare di crisi della giustizia e di crisi della legalità e, quindi, di attacco frontale allo stato di diritto, se si giunge già ad affermare che il mondo politico deve impegnarsi a non disperdere l’eredità della prima Repubblica perchè ormai dovrebbe nascere la seconda?

In tale contesto, quale scopo hanno le leggi?

Le leggi sono la cristallizzazione delle correnti di pensiero convergenti nella società o sono soltanto mucchi di carta? L’interrogativo è drammatico, ma attende risposta!

LA CRISI DELLA LEGALITÀ TRA GIURISDIZIONE E LEGISLAZIONE

Una ulteriore considerazione - ugualmente preoccupante - è che nell’attuale società italiana non mancano coloro che ritengono - in buona o mala fede - che i problemi della nostra democrazia si possano risolvere con il cambiamento: si cambiano i regolamenti parlamentari, il grave problema della droga si affronta inasprendo le repressione penale, la mafia (che non è nata ieri) si combatte e si conta di sconfiggerla con il “rigoroso rispetto della legge”.

Fra deboli e forti aumenta sempre più la delega dei deboli ai forti. La giustizia o è semplice sovrastruttura o è raffinato strumento di controllo sociale. Ma la giustizia non può essere Alice nel Paese delle Meraviglie! Essa deve poter contare su certezze che, peraltro, non significano staticità delle norme, nel senso che, quando si dice che nel sistema della legalità il giudice non è che un interprete della legge, non si deve credere che egli sia niente altro che il portavoce inanimato e meccanico della legge, la “bouche de la loi”, come voleva il Montesquieu.

La legge, anche la più precisa e la più minuziosa, lascia al giudice, non solo la ricostruzione del fatto, ma anche, nella ricerca della relazione che passa tra il fatto ed il precetto giuridico un certo ambito di movimento, entro il quale il giudice cerca la risposta, sempre alla luce dei generali principi della Costituzione. A tal punto, si devono ritenere allarmanti sintomi di caduta di legalità le questioni recentemente insorte a proposito del c.d. decreto sulle scarcerazioni facili ed il ricorso - così desueto - alla interpretazione autentica di norme da parte del Parlamento, che ha una produzione legislativa di sempre più difficile lettura.

Per non parlare - sotto altro aspetto - della diffusa resistenza che in larghi strati della magistratura è stata attuata prima dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale e dura tuttora. È pur vero che la giurisprudenza di un paese come il nostro, con consolidate tradizioni inquisitorie, non può all’improvviso adeguarsi al rito accusatorio, espressione di una nazione con un passato di democrazia rappresentativa. Il metodo processuale non è come un abito che si possa d’un tratto smettere per indossare un altro nuovo e diverso.

Tuttavia gli operatori giudiziari del settore penale avvertono che il sistema delle prove è in rilevante crisi, oscillando tra il remoto principio del libero convincimento e la sottile distinzione, talvolta tartufesca, tra indizi e prove, con defatiganti interrogativi nell’ambito di situazioni meramente caratterizzata da sospetti. La pratica applicazione delle nuove regole del processo penale ha un percorso che è ormai costellato di continue modifiche e rielaborazioni anche per gli interventi della Corte Costituzionale che, pur se ispirata a principi di prudenza e di contributo ad un equilibrato assestamento, è espressione di quelle particolari caratteristiche del nostro sistema di controllo della costituzionalità delle leggi statali, che può svolgersi solo “a posteriori” e, di regola, nel corso di giudizi già altrimenti instaurati.

Per parte sua, la Corte di Cassazione non è estranea alla crisi del principio di legalità, se è pur vero che va sempre più espandendosi il diritto penale giurisprudenziale come conseguenza di inerzia o ermetismo legislativo. Nel nostro ordinamento, la funzione di decidere quale interpretazione debba essere accolta (e quali, invece, rifiutate) spetta, in ultima istanza, come è noto, alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Tuttavia, le stesse singole Sezioni della Corte esercitano, anche autonomamente, una rilevante funzione nomofilattica.

Un problema di così ampio rilievo non può essere ignorato, eludendo la necessità di conciliare il rispetto del principio di legalità con la creatività dell’interpretazione giurisprudenziale. Allo stato, infatti, ben può dirsi che contro il permanere del fenomeno del c.d. diritto penale giurisprudenziale, cioè del complesso delle nuove norme incriminatrici, aggiunte in via interpretativa dalla Corte di Cassazione al sistema vigente, non esiste in concreto alcun efficace mezzo di tutela del cittadino. Esso non ha alcuna possibilità di veder verificare (dal Parlamento, dalla Corte di Costituzionale o dalle stesse Sezioni Unite della Cassazione) la compatibilità di talune interpretazioni additive con il principio di legalità.

Sicchè il principio di legalità non è affatto un principio davvero vigente nel c.d. diritto vivente, con l’ovvia conseguenza della impossibilità di dire in quale misura la Corte di Cassazione abbia saputo modificare il suo ruolo di dispensatrice di verità giurisprudenziali, divenendo luogo di confronto e sintesi dei diversi punti di vista, piuttosto che di solitarie ed autoritarie elaborazioni di massime giurisprudenziali.

In verità, la Cassazione non ha sempre saputo realizzare al suo interno riconoscibili ed univoci orientamenti ed i contrasti interpretativi hanno sovente trovato e trovano nella Suprema Corte una occasione di legittimazione, piuttosto che la sede di risoluzione.

L’INGORGO DEI DECRETI LEGGE

La situazione di stallo che caratterizza l’attività parlamentare fa si che sia sempre più rara l’approvazione di una legge che sia anche una buona legge sul piano sia sostanziale, sia formale.

Spesso, infatti, il mancato raggiungimento di un accordo in sede di votazione rinvia la definizione di regole e di principi alla sperimentazione giurisprudenziale. Le riforme o vengono rinviate sine die o sono affrontate senza coraggio.

Noi pratici del diritto potremmo indicare decine di casi in proposito. Al posto della emanazione dileggi, è invalso il ricorso da parte del Governo al decreto legge. L’ingorgo legislativo è ormai completo e la babele dei decreti è sotto gli occhi di tutti, in quanto i decreti ingolfano le Camere e le Camere non riescono a convertirli nel termine, sicchè la ripresentazione è divenuta usuale, come proiezione di una “legislazione a tempo”.

Anche questo intollerabile fenomeno accresce la crisi della legalità: ne sono esempi eloquenti il recente decreto sulla criminalità e quello di modifica della legge 516 (c.d. manette agli evasori) che hanno finito col fare esplodere una salutare contraddizione - ancora non manifestata in modo significativo - fra Parlamento e Governo. Il primo ha voluto tentare di riappropriarsi delle sue prerogative, il secondo si è espresso attraverso due autorevoli Ministri in dissenso tra loro. Tutto ciò incide non solo sulla legislazione in senso formale, ma si riverbera sull’amministrazione della nostra “giustizia quotidiana”, ormai malata in fase terminale e - in definitiva - compro- mette quel “dannato bisogno” di certezza del diritto che anche i cittadini invocano.

PROSPETTAZIONI CONCLUSIVE

È bene che il mondo della politica sappia che va emergendo fra gli operatori giudiziari una dimensione del diritto come patrimonio di civiltà valido in sè, non per patrocinio politico.

Il rìtorno del processo al contraddittorio, la rìprcsa di interesse per il processo civile, il peso conferito agli avvocati come protagonisti della dialettica cittadino-collettività, la difesa del C.S.M. come momento di organizzazione che incide sulla effettività del valore giustizia, la recente sentenza della Corte Costituzionale sull’ignoranza della legge, offrono un quadro di riferimento a regole del diritto che hanno una ìntìma, interna razionalità che il potere politico non può violare.

Diritto e potere - per dirla con Norberto Bobbio - sono due facce della stessa medaglia: solo il potere non può creare il diritto, ma solo il diritto può limitare il potere. Lo stato democratico non può porsi che dal punto di vista del diritto e deve rispettare le sue leggi fondamentali che vincolano, prima ancora che i cittadini, gli stessi governanti. Queste ovvie considerazioni, provenendo da operatori della giustizia, mirano a pretendere, più che ad invocare un ritorno alla legalità ed alle competenze che la legge assegna ai vari organi nonchè alla rimozione della commistione dei poteri.

La giustizia italiana degli anni novanta ha bisogno indubbiamente sia delle riforme di struttura sia delle riforme legislative, che vanno attuate nell’ambito della legge fondamentale dello Stato, che non va cambiata, quanto meno perchè non è stata ancora attuata, anche se necessita di opportuni aggiustamenti che non ne compromettano l’impianto generale, espressione della scelta maturata oltre quaranta anni or sono con il patto costituzionale.

La giustizia degli anni novanta ha bisogno di certezza, anche normativa, per essere credibile ed accettabile ed assicurare al cittadino il godimento dei suoi diritti e l’adempimento dei suoi doveri.

Questo congresso di avvocati, aperto anche ad altri tecnici del variegato mondo giudiziario, cade in un momento molto serio e preoccupante della vita istituzionale del nostro paese.

I risultati del dibattito e le mozioni finali - come è consuetudine del sindacalismo forense - daranno un utile contributo per il superamento della crisi e confermeranno - ove ce ne fosse bisogno - il rinnovato impegno dell’avvocatura italiana raccolta nella Federavvocati per la difesa tenace ed ampia dei cittadini e per la salvaguardia dei diritti fondamentali della Costituzione italiana.

SALUTO

Con questo congresso scade il mio triennio di mandato di Presidente della nostra associazione.

Sin dal settembre dello scorso anno, nel far riferimento - per coerenza e convinzione - all’avvicendamento delle cariche, ho espresso la mia preoccupazione - come tutti, d’altra parte - circa l’indispensabile necessità che la Federavvocati prosegua il disegno unitario, interno ed esterno, ancora gracile e complesso. Sollecito, quindi, espressamente un grande fervore ed un forte impegno da parte di tutti i futuri dirigenti per rafforzare tale obiettivo.

Non posso concludere questa mia relazione senza rivolgere un fraterno ringraziamento al Segretario Generale ed ai componenti della Segreteria per il lavoro svolto, a tutti gli iscritti per aver sostenuto le tante iniziative promosse e, in particolare, ai consiglieri nazionali che, con puntualità, grande coraggio e considerevoli contributi, hanno consentito lo svolgimento di importanti riunioni consiliari nel rispetto delle scadenze statutarie e nei momenti cruciali della nostra vita associativa.

Saluto, altresì, i responsabili delle associazioni ed istituzioni forensi e giudiziarie con i quali ho avuto l’opportunità di collaborare. Con tutti ho cercato di svolgere un proficuo lavoro ed in tutti ho riscontrato una grande tenacia nel realizzare i programmi prefissi. Di tutti conserverò un ottimo ricordo. Concludo con un augurio: auguro che il futuro possa riservare alla nostra organizzazione dirigenti sempre più capaci e fattivi che, nel solco della tradizione - da taluni, forse invidiata e percìò invano negata - sappiano sviluppare idee e progetti in difesa della libera avvocatura, per accrescerne la tensione morale, vivificarne il ruolo e conferire sempre più spessore al messaggio di libertà, giustizia e democrazia che ha accompagnato il nostro cammino.